Lo scorso 14 gennaio Dan Gurney si è spento. Un grande pilota americano che ha recitato la parte del protagonista sia negli States che in Europa. Il pilota delle due sponde che ha incarnato, come pochi altri, la poliedricità dei piloti di un tempo. Questa è la sua storia.
Da quando ho aperto Motorsport Republic+ volevo scriverla la storia di questo spilungone americano che ha corso e vinto nella Formula 1 degli anni ’50 con la Ferrari, che ha guidato magistralmente l’incursione di Porsche per poi passare (e vincere) a Le Mans con Ford. Che dopo Ferrari, Porsche, Brabham diventa Costruttore schierandosi con la Eagle ed il team All American Racers fondato con l’amico Carol Shelby.
Il 14 gennaio 2018 Dan Gurney, classe 1931, saluta tutti e se ne va. Per la complicazione di una polmonite, Dan ci lascia con una storia tra le più splendide del motorsport mondiale. Eh sì perché la poliedricità è sempre stata la caratteristica più acuta e affascinante di quest’uomo che vince dappertutto, ma ancora prima, soldato dei Marines, combatte con onore e coraggio nella guerra di Corea. Poi, riportata la vita a casa, le corse. La Formula 1, Le Mans, le gare americane della Can-Am, della Trans-Am e della Nascar. E poi costruttore e team manager in Indy, Formula 5000, di nuovo Tran-Am ed IMSA.
Jim Clark, non uno qualsiasi, lo considerava il rivale più temibile, lui che in Formula 1 ha raccolto le briciole di un impegno e un talento sparso a grandi mani al di la ed al di qua dell’Oceano.
All American Racers. Il suo centro di gravità
La All American Racers, fondata insieme all’amico Carol Shelby nel 1964, è stato il centro della sua vita fino all’ultimo. Così mi piace pensare di quest’uomo che ha dedicato la sua energia e passione alle corse e al motorsport. Attività arricchita da una energia creativa sorprendente ammantata da gentilezza e generosità.
La sede pulita e discreta di Santa Ana, a sud di Los Angeles, è tuttora il centro di gravità di una AAR che racchiude molto della storia più bella ed audace delle corse americane. Dan Gurney ne è stato, fino alla fine, il Presidente mentre il figlio Jason il CEO. Recentemente è qui che è nata la Delta Wing, lo sfortunato concetto visto anche correre alla 24 ore di Le Mans del 2012, oppure la “Alligator”, motocicletta nata proprio da un progetto dello stesso Gurney iniziato negli anni ’90.
Dan Sexton Gurney nasce a Long Island, nello Stato di New York da un padre che faceva il baritono alla Metropolitan Opera. Ci resta fino a 17 anni quando la famiglia decide di trasferirsi in California in una fattoria. La passione per le quattro ruote nasce lì, iniziando a frequentare il mondo delle hotrod dove conoscerà Phil Remington uno dei pionieri di questa specialità tutta americana. Divennero amici, fino alla fine. Remington, che verrà coinvolto nelle storie della Ford GT40 e della Shelby Cobra, seguirà Gurney alla AAR dove rimarrà a lavorare fino alla sua morte nel 2013. Ad oltre novant’anni.
Marine in Corea
In quel periodo zeppo di entusiasmi e voglia di esagerare, Dan Gurney non sapeva che aveva iniziato a concimare il suo mito. Con una vecchia Ford Model A modificata con un Ford V8 Flathead, uno strip a Boneville, sul lago salato, fino a circa 210 km/h. Poi l’entusiasmo giovanile interrotto dalla guerra di Corea. Lui parte, tra i Marines. Il come è andato, come ha combattuto, quali fantasmi si è portato dietro, non è dato sapere. La cosa certa è che ritorna con più voglia di prima, perché la velocità è droga che crea assuefazione subdola, che pensi sia passata ed invece di travolge di colpo come un’auto in contromano. Allora ricomincia da dove aveva lasciato, anzi no.
Nel 1955 decide che le corse su strada hanno più appeal. Con una Triumph TR2 corre la sua prima gara a Torrey Pines.
Ma non è sufficiente. La voglia di velocità, di più velocità, è impellente, cerca spazio per crescere. Dan Gurney lavora in un’azienda di ingegneria, prende 1,12 $ l’ora. Quanto basta per andare in banca ad ipotecare il suo lavoro. Si compra una Porsche Speedster, ma senza una idea precisa sul cosa fare, ma solo la certezza della breve durata dei soldi e l’impossibilità di dare un seguito concreto a questa passione.
Farsi strada con le auto degli altri
Succede che un fine settimana si trovò a Willow Springs a guardare due compagni a bordo di una Corvette cercare di farsi largo con un tempo accettabile in una gara stagionale. Lì, a bordo pista, capì che l’unica possibilità era farsi strada con le auto degli altri. Chiese di poterli aiutare, perché quell’equipaggio sembrava annaspare tra le curve del tracciato senza ricavare granché. Salì, pochi giri, subito abbattuto il record di categoria. Quanto basta per guadagnarsi la convocazione per la gara inaugurale dell’autodromo di Riverside. Lì, vittoria di categoria. Battuta la favorita Mercedes 300 SL, sulla carta molto più veloce della Corvette. Dan Gurney è qui che inizia a diventare il padrone della sua storia.
Il suo compagno di squadra si chiamava Cal Bailey e lavorava per il costruttore italo americano Frank Arciero. Il quale oltre ad essere fottutamente ricco era altrettanto fottutamente appassionato di corse. Aveva una Ferrari 4.9 che era stata ricostruita dopo un incidente e che non sembrava più quella di prima: più aspra e scostante. Dan Gurney venne convocato di nuovo a Willow Springs per cercare di addomesticare, intepretare un purosangue diventato selvaggio. Pochi giri per adattarsi alle richieste della Ferrari 4.9, assecondarle, seguendo quel talento dell’esattezza che lo farà diventare un grande, ed il record assoluto del giro era il suo. Il record con un’auto difficile e che metteva soggezione. Difficile, ma maledettamente veloce.
Una striscia di successi nella SCCA con la Ferrari 4.9 di Arciero mettono Gurney in splendida evidenza, ma Dan non era un pilota professionista ed il lavoro chiamava, pronto anche a promuoverlo a maggiori responsabilità, ma al prezzo della rinuncia. Le corse dovevano uscire dalla sua vita. Era arrivato il tempo delle scelte e lui scelse, seguendo il cuore e la passione. Licenziato, con moglie e due figli piccoli.
Le corse rimanevano l’opzione da seguire, la sfida più difficile e da vincere per non trasformare il suo sogno, in un gigantesco, doloroso fallimento. C’era la possibilità delle gare sugli ovali, testimonianza di come l’America interpretava questo sport: velocità e spettacolo, ma per un pilota che voleva costruire la propria carriera seguendo la tradizione europea delle corse su strada la questione si faceva maledettamente difficile.
La sua prima, inaspettata 24 ore di Le mans
I sogni svaniscono all’alba, ma alle volte prendono la forma di una telefonata. Era quella di Luigi Chinetti, anche lui un italo americano, ex pilota, diventato il primo concessionario Ferrari d’Oltre Oceano con sede a New York e titolare della NART (North American Racing Team). Mister Chinetti l’aveva notato, questo giovane brillante pilota. Aveva, infatti, la buona abitudine di frequentare da spettatore le gare minori alla ricerca di talenti. E l’aveva trovato in Dan Gurney. Una telefonata in Italia, a Maranello per parlare con Enzo Ferrari e una inaspettata convocazione a Le Mans.
Era l’edizione della Classica della Sarthe del 1958. Gurney si ritrova compagno di team di Bruce Kessler su una Ferrari 250 Testarossa. Un’edizione infernale, con un cattivo tempo che flagellò l’intera gara. Intorno alle 22 la sua macchina, con alla guida Kessler, viaggiava in quinta posizione, quando la Jaguar D-Type di Jean-Marie Brousselet si schianta sul terrapieno dopo la curva Dunlop rimbalzando e finendo in pista per essere travolta proprio dalla Ferrari 250 Testarossa del team NART. Nello schianto la Jaguar prende fuoco uccidendo il suo pilota, mentre Kessler viene estratto solo con lividi pesanti e qualche costola rotta.
Due settimane dopo, sempre in Francia, Gurney si ritrova a guidare una Ferrari 250 GT alla 12 Ore di Reims condividendola con André Guelfi. Anche qui la sfortuna non aiuta l’equipaggio che si vede costretto al ritiro mentre viaggiava al secondo posto con Guelfi alla guida.
Il suo tour europeo continuò senza seguire un programma particolare. Stava diventando un pilota a chiamata, cosa che poteva accadere solo in quei tempi d’oro del motorismo da corsa, fatto di mecenatismo e passione. Al Ring, per esempio, per correre la gara delle Sport Car di supporto al GP Formula 1 con una piccola Osca che il fotografo francese Bernard Cahier gli aveva fatto avere e poi convocato a Silverstone per correre con una Jaguar D-Type della Ecurie Ecosse prima che Masten Gregory la picchiasse contro un muro. Poi a Modena alla Scuderia Centro-Sud di Mimmo Dei a provare una Maserati 250F. Macchine diverse, team diversi ad alimentare quella poliedricità che lo caratterizzerà per tutta la carriera.
Tornato in America, Gurney ritorna a correre per Arciero e per la NART di Chinetti, ma oramai era un pilota poliedrico e sempre con la valigia pronta. Succede che la Ferrari perde per incidenti mortali Peter Collins e Luigi Musso, Mike Hawthron si ritira e allora è Dan che viene convocato di nuovo a Modena per una sessione di test. Prima una 2 litri, poi una 3 litri e poi una F.1. Il passaggio seguente è a Monza con una Testa Rossa in un test insieme al collaudatore di Maranello Martino Severi. Era lui il riferimento sulla pista brianzola. Per rendere la questione ancora più complessa, la pioggia. Come a Le Mans, solo che qui non doveva correre, gestire una gara, qui doveva impressionare.
Quel mazzetto di banconote …
Ci sono dettagli che sembrano insignificanti, ma che rischiano di riassumere l’intera tua storia in un meccanismo che si inceppa. Succede che Gurney, per vivere quelle giornate italiane, si era portato in pista una mazzetta di 10.000 lire. Non c’erano le carte di credito allora e 10.000 lire, a cavallo tra i ’50 e i ’60 dello scorso secolo mica erano poche. Dentro una borsa al box non le voleva lasciare, allora decide di appallottolarle e metterle dentro alla sua tuta. Ma la posizione di guida poco adattata e la pressione di quelle banconote sulla gamba destra, gli comportarono una certa perdita di sensibilità dell’arto. Una condizione per niente ideale considerando la posta in gioco e l’attenzione del Commendatore a bordo pista.
Alla fine non riuscì a girare più veloce di Severi, ma eguagliò il suo tempo e, di più, durante il giro di rientro si girò pure in Parabolica, ma laggiù, al box, non lo seppero mai.
Un test probante, Modena prima e poi Monza, ma il rientro negli States fu senza risposta. Ferrari, il Commendatore, spesso faceva così: osservava, ringraziava e salutava. Anche questa era la sua tecnica per misurare un pilota.
Il debutto in Formula 1
Ma la risposta arrivò da Maranello. Era l’ingaggio (163 $ al mese) per la stagione 1959 nel World Sports Car Championship (WSCC) come compagno di squadra di Tony Brooks, Jean Behra, Phil Hill, Olivier Gendebien e Cliff Allison. Da qui la sua carriera scala la vetta: vincente a Sebring, poi Targa Florio, Ring quando da secondo, per problemi alla frizione, si classificherà al quinto posto e poi Le Mans insieme a Behra. Di nuovo Monza, questa volta con la Formula 1. Un test con la Ferrare 246, già Campione del Mondo con Mike Hawthorn l’anno prima e adesso laboratorio di sviluppo per la Ferrari 258 che, quell’anno stava combattendo con le prime F1 a motore posteriore. Anche qui con Behra, ma, cosa più importante, ancora una volta con il Commendatore a bordo pista.
Il suo compagno aveva già battuto il miglior tempo, prima che la vettura passasse a Gurney. Dopo un primo stint di 10 giri lo richiamano al box per montare un nuovo treno anteriore, questa volta con pneumatici da 16 pollici al posto dei consueti 15. “Guarda. Stai attento” l’unica raccomandazione dei suoi meccanici è in italiano. Lui parte. Un paio di giri di riscaldamento poi il ritmo aumenta, arriva in prossimità della Parabolica, la frenata dove era solito frenare, ma l’anteriore si blocca. Via la pressione dal pedale centrale e poi di nuovo a cercare di modulare, ma oramai era troppo lungo, l’urto inevitabile. Con una manovra riesce a mettere la Ferrari 246 di lato, per l’assenza di cinture il colpo rischiò anche di catapultare di fuori lo stesso Gurney, la sicurezza allora era argomento che non riguardava questo genere di uomini. Il guaio era fatto.
Dan pensava di aver chiuso lì la sua partita. Al box poche parole della squadra. Nessuna invece dal Commendatore. Solo un laconico “peccato”, seguito qualche istante dopo da “a proposito in quei primi 10 giri ha eguagliato il tempo di Behra”. Tre settimane dopo, Dan Gurney, prenderà parte al suo primo GP. A Reims ruppe il motore, all’Avus conquistò un sorprendente secondo posto, terzo a Monsanto Park in Portogallo e quarto al GP d’Italia a Monza.
L’automobilismo di quegli anni era velocità, coraggio e violenza. Era guerra che faceva le sue vittime e che innalzava i piloti nell’Olimpo degli eroi. Al GP di Germania, sul temibile Avus, Jean Behra non era più un pilota Ferrari, era stato licenziato dal Commendatore dopo la gara francese di Reims. Si presentò all’appuntamento in una gara di contorno con una Porsche. Si uccise sul tratto sopraelevato del circuito.
Al riguardo Gurney dirà: “sapevo che tutte le incognite del circuito risiedevano sul tratto sopraelevato, il più delicato e pericoloso in caso di perdita di controllo”. I mattoni che costituivano la pavimentazione di quella sezione del circuito diventavano terribilmente insidiosi in caso di pioggia. A differenza della gara delle Sport, durante il GP non piovve.
Il disastro BRM
La Formula 1 stava vivendo un momento di grande rivoluzione tecnica, l’architettura di una vettura di Formula 1 stava cambiando definitivamente con lo spostamento del motore da anteriore a posteriore. Dan Gurney fa la sua scelta firmando per la stagione 1960 con la BRM motorizzata Climax. Mentre Enzo Ferrari continuava a sostenere che i cavalli dovevano tirare la carrozza e non spingerla, il mondo della tecnica automobilistica stava iniziando a parlare sempre più inglese.
Fu una stagione disastrosa, senza mai finire una gara tranne Silverstone e un incidente brutale a Zandvoort dove, a causa di un guasto ai freni, investì anche uno spettatore. Era il momento di dare fondo al suo talento, alla sua capacità di adattarsi ed andare forte con ogni vettura. Era il momento di cercare gloria in qualche altra categoria.
Alla 1000 Km del Nürburgring, per esempio, con una Maserati Birdcage schierata dal team americano Camoradi (Carner Motor Racing Division) in coppia con Stirling Moss. Fu una gara epica. Quando guidava Moss, Gurney andava a vederlo nelle curve più tecniche del circuito, consapevole che la superstar assoluta fosse il suo compagno. Al cambio pilota Moss gli consegnò la vettura in testa con un minuto di vantaggio sul secondo. Gurney non fu da meno, ma una perdita d’olio improvvisa costrinse l’americano al box. Fu una riparazione veloce, d’emergenza e fortunata. Il motore non si danneggiò, Gurney poté ripartire, risalendo posizioni e consegnando la vettura a Moss che la portò prima sotto la bandiera del traguardo.
Il passaggio in Porsche
Con l’avvento del nuovo regolamento che prevede una Formula con cilindrata da 1,5 litri, Dan Gurney passa a Porsche. Un passaggio che lo migliorerà anche come pilota. Semplicemente perché, a differenza della BRM, la sua Porsche 718 arrivava al traguardo. Non era la più veloce in assoluto, il suo flat four raffreddato ad aria, però, era affidabile e sincero. Ed i risultati, per un pilota veloce e concreto come lui, non tardarono ad arrivare: secondo a Reims, Monza e Watkins Glen, terzo nella classifica generale alla pari con Moss. Nel 1962 una ulteriore evoluzione del pacchetto tecnico messogli a disposizione da Stoccarda. Questa volta il motore passa da 4 a 8 cilindri, sempre boxer, sempre con raffreddamento ad aria. Oltre alla vettura, denominata 804, Gurney si trova benissimo con la squadra. Si aspettava serissimi teutonici tutto lavoro e … lavoro ed invece no, perché con loro si divertiva anche a passare momenti di puro relax. Ed era questa la componente migliore per concretizzare il primato: la prima ed unica vittoria della Porsche nella Massima Formula. Succedeva a Rouen e poi, due settimane dopo, davanti a 300.000 persone sul circuito tedesco di Solitude vicino a Stoccarda, un evento non valido per il Campionato Mondiale. Altre tre settimane e l’ottima forma sua e della sua Porsche 804 si concretizzano nella conquista della Pole Position del GP di Germania ed il terzo posto finale dopo una accesa battaglia con la BRM di Graham Hill e la Lola di John Surtess.
Indianapolis
Stesso anno, 1962, in Formula 1 Dan Gurney è forte, veloce, concreto. Affiatato con la sua squadra che riesce a mettergli a disposizione una monoposto non micidiale, ma che fa dell’affidabilità il suo punto forte. Ma Dan è un pilota, di quelli con i fiocchi, e gente così smania per provare nuove esperienze anche a costo di giocarsi reputazione ed immagine. La sua America chiama. Nello stesso anno vola quindi ad Indianapolis, un posto che vede per la prima volta e per la prima volta prova una vecchia monoposto con motore Offenhauser. Non rimase colpito, la sensazione di perdere costantemente il posteriore non gli piacque così come non gli piacque il diniego del capo meccanico di intervenire per alcune modifiche di assetto che lui voleva. Dopo un rientro nel Vecchio Continente, precisamente in Sicilia per correre la Targa Florio con Porsche, Gurney riprende il discorso Indy, questa volta con una monoposto più moderna del team di Mike Thompson ed il motore Buick V8. Si qualifica con l’ottavo tempo e nelle prime fasi di gara si installò costantemente tra i primi 10 fino a quando la trasmissione lo tradì. Ma il dado era tratto, il suo definitivo percorso di avvicinamento a Indy e alle corse americane era iniziato.
La sua esperienza in Formula 1 lo aveva convinto che anche lì, negli States, il motore posteriore sarebbe stata la strada da percorrere. Un biglietto andata e ritorno ed un invito a Colin Chapman per un’occhiata era la sua idea. Da lì ad un accordo, firmato a Detroit, per una Lotus-Ford di Formula Indy per la stagione 1963 fu un attimo. Nei pre test di marzo Gurney raggiunge i 240 km/h di media, ma nelle qualifiche del mese di maggio colpisce il muro anche per un assetto non ideale. La partenza della gara è con l’auto di riserva riuscendo a finire la sua prima Indy al 20.mo posto. Non andò meglio nel 1964 con il nuovo Ford V8. La Lotus si presenta con Dan Gurney e Jim Clark, una coppia da faville sulla carta, ma questa volta erano le gomme Dunlop a non essere all’altezza come il risultato finale: ritirati.
Protagonista anche con le Sport Car
Si chiamavano così, noi oggi le chiameremmo GT. Ma Dan Gurney era fortissimo anche con questa tipologia di auto protagonista, allora, di durissime corse su strada. La prima vittoria Dan la ottiene nel 1963 alla 500 Km di Bridgehampton, un circuito vicino a New York, con una Shelby Cobra. Nel 1964 entra stabilmente nella squadra messa in piedi da Carol Shelby per strappare il Campionato GT alla Ferrari. Ritorna alla Targa Florio in coppia con Jerry Grant. Un circuito così tortuoso e dall’asfalto così tormentato da non essere l’ideale per la già nervosa Cobra, ma riescono a conquistare un secondo posto di categoria e ottavo assoluto. Poi Le Mans con la versione Coupé Daytona con la quale, in coppia con Bob Bondurant, si classifica quarto assoluto e primo della categoria GT. Terzo posto assoluto, infine, nel Goodwood TT sempre con la versione Coupé della Shelby Cobra.
Anche nella Formula 1, intanto, Dan Gurney è protagonista di un altro cambio di casacca. Porsche abbandona alla fine del 1962 e lui si accasa nella nuova squadra messa in piedi da Jack Brabham l’anno prima. Anche se erano strutturalmente sottodimensionati (avevano un meccanico per auto) la grande maneggevolezza della monoposto progettata da Ron Tauranac gli permise di essere sempre tra i primissimi non solo in quella stagione, ma anche nelle due successive. Alla fine, il bottino di vittorie non ripagò con solo due primi posti nel 1964 in Francia ed in Messico.
La nascita della All American Racers (AAR)
Relativamente alle scelte dei team con i quali correre, Dan non ha dimostrato mai una grande lungimiranza. Lasciò la Ferrari e Maranello iniziò a vincere, stessa cosa con la BRM e Brabham. Un tempismo sempre maledettamente sbagliato.
Era il 1966 e la Formula 1 si stava preparando ad una nuova rivoluzione tecnica con il passaggio alla cilindrata di 3 litri, Dan Gurney cambia completamente strategia. Adesso vuole fare da se, diventare costruttore e team e impegnandosi in ambedue le sponde dell’Atlantico. Un piano micidialmente complesso, un’acrobazia in nome della passione smisurata e della smisurata fiducia in sé. Si chiamava All American Racers, la grandiosità tutta nel nome ed un percorso, anno dopo anno, che avrebbe segnato la storia del motorsport americano.
La stagione 1966 di Formula 1 inizia con la Eagle equipaggiata da un vecchio quattro cilindri Climax da 2.7 in attesa di ricevere un V12 che, malgrado l’entusiastico lavoro della Weslake, non arrivava a 400 cavalli. Un handicap non piccolo rispetto ai 420 del motore più longevo della F1 che debutterà l’anno seguente: il Cosworth DFV. Ricevuto il motore solo alla fine del 1966, l’anno successivo permise comunque di correre una stagione più che soddisfacente con la vittoria alla Race of Champions di Brands Hatch davanti alla Ferrari di Lorenzo Bandini.
Un “tour de force” al limite del possibile
L’impegno iniziale come pilota/costruttore fu titanico: F1, USAC, TransAm, SportCars, Dan Gurney volava da una parte all’altra dell’Atlantico in un tour de force possibile solo in quegli anni romantici e pericolosi dell’automobilismo da corsa. Un’avventura emozionante. C’erano mesi di tale impegno che oggi semplicemente non sarebbero possibili per divieto medico… altro che per l’impegno richiesto dalla F1 odierna. Un esempio? Stagione 1967 fine aprile in Texas, campionato Trans-Am, Green Valley 300 a Smithfield dove Gurney corre con una Mercury Cougar vincendo la gara. Subito via per Indy per le prove libere con la sua Eagle Ford V8 in cui ha girato alla media di 270 km/h. Subito dopo in volo per l’Europa per andare a controllare il programma di costruzione del Weslakes V12 e poi verso il Sud Europa a Montecarlo per un GP dove si ritirerà per rottura della cinghia della pompa d’iniezione. Ma non c’è tempo di smaltire la rabbia che è previsto un rientro notturno in America per le qualifiche di Indy dove, con un giro ad oltre 270 di media viene battuto solo da Mario Andretti.
La gara si corse il martedì, ma venne interrotta per pioggia quando Dan era in seconda posizione dietro Parnelli Jones. Alla ripresa il giorno dopo Dan doveva essere sull’aereo per Zandvoort per correre il GP d’Olanda, ma invece era nell’abitacolo della sua Eagle-Ford. Si riprese anche il comando delle operazioni per essere poi fermato da un problema alla valvola del serbatoio. Il venerdì della stessa settimana eccolo di nuovo nell’abitacolo della sua Eagle, questa volta di Formula 1, qualificatosi al secondo posto dietro alla Lotus 49 di Graham Hill. Anche in questo caso un ritiro per un problema tecnico in gara quando occupava la quarta posizione. Il giorno dopo ancora a Zandvoort per test e mercoledì in auto per arrivare in Francia per correre la 24 ore insieme anche ad AJ Foyt con una Ford GT 40 MkIV. A proposito: vincendo la gara. E dopo, un riposo meritato? Anche no. Il lunedì fu di trasferta per un test, il giorno dopo, a Goodwood per poi volare il giovedì in Belgio per il GP e per la prima, storica, vittoria dell’Eagle.
La fantastica vittoria a Le Mans
La vittoria assoluta alla 35.ma edizione della 24 Ore di Le Mans è stata una dei successi più belli di Gurney, in coppia con AJ Foyt pilota di grandi capacità di guida e conoscenza tecnica. Per Foyt era la prima Le Mans, per Dan la decima. Era una questione di esperienza trasmettere bene a Foyt un concetto: “Le Mans non è una gara. E’ una gara di resistenza. Bisogna essere gentili con la macchina”.
Era questo il concetto, l’unico, che AJ doveva sapere. Il resto lo avrebbe messo lui per il grande pilota che era. Durante le prove non strafarono, il crono li vedeva noni e gli uomini Ford, preoccupati, cercavano di capire quali problemi ci fossero. Ma Dan Gurney, notoriamente pilota che chiedeva sempre mille regolazioni, rispondeva con rapida semplicità: “la macchina va bene”.
Al pronti via scattano bene, regolari come un orologio. E l’orologio ha un suo ritmo, costante, uguale, certo. Alla seconda ora erano già in testa. Alle cinque del mattino avevano un vantaggio di 6 giri sulla Ferrari P4 della coppia Lodovico Scarfiotti/Mike Parkes. Dall’alto della sua esperienza aveva radiografato i punti di forza e di debolezza della sua Ford GT40 in un attimo. Le prove libere gli avevano fatto comprendere dove poter osare e dove no. I freni. E’ da lì che si potevano annidare problemi. Arrivare alla Curva di Mulsanne dopo il lungo Hunaudierès voleva dire presentarsi alla frenata ad una velocità di circa 340 km/h. Imporre quel tipo di punizione ai freni avrebbe voluto dire non più di 10 giri. La tecnica sarebbe stata diversa, completamente diversa. Alla gobba delle Hunaudierès, a circa metà dell’allungo, avrebbe alzato il piede completamente, lasciato andare la Ford Gt40 così, d’inerzia, fino alla frenata prima della curva. Si sarebbe presentato all’appuntamento con i freni alla velocità, molto meno furiosa, dei 150 km/h, quanto bastava per salvaguardare l’efficienza della frenata. Una tecnica che significherà la vittoria con ben 4 giri di vantaggio sulla Ferrari. That’s all folks. Trionfo.
L’invenzione di un gesto che vuol dire motorsport
Vincere a Le Mans per i piloti di ieri (e di oggi) non vuol dire vincere una grande classica di durata, ma probabilmente il suo valore è paragonabile alla vittoria mondiale in Formula1. La gioia di un podio sul Circuito della Sarthe è proporzionale al valore del risultato. Gurney, senza saperlo, quella domenica avrebbe cambiato per sempre la cerimonia del podio. Con la bottiglia di champagne in mano voleva rendere il gesto frizzante come la sua gioia. Prima di stapparla aveva iniziato a scuotere la bottiglia, davanti a lui i fotografi e il suo capo, Henry Ford II insieme a sua moglie. Un attimo e le bollicine del Magnum avrebbero innaffiato tutti gli astanti. Fu un gesto, il primo, che avrebbe iniziato una routine per tutti i podi del mondo ed in tutte le categorie da lì a venire
Ma torniamo un attimo indietro anche per sottolineare che razza di vittoria fu quella di Formula 1 al GP del Belgio a Spa.
Era al massimo Dan Gurney, dopo la vittoria a Le Mans, dopo gli ottimi risultati sia ad Indy che a Montecarlo, nel GP di Formula1, dove malgrado i risultati non concretizzati, aveva dimostrato a se stesso ed al mondo la qualità delle sue Eagle. Ecco che il fine settimana dopo Le Mans, nel rispetto del suo ritmo di vita pazzesco, si trova a Spa per correre il GP del Belgio. Salta il briefing, una sbaglio madornale. Il direttore di gara avverte sulla procedura di partenza: la bandiera dello start poteva essere sventolata in qualsiasi momento, dopo il cartello dei 30 secondi.
Succede che Dan, che scatta dalla prima fila in mezzo alle due Lotus 49 di Jim Clark e Graham Hill, in quel momento, al calare della bandiera nazionale belga, non aveva neanche la marcia innestata. Al primo giro passa ottavo, al secondo giro transita al terzo posto, al 21° issa la sue Eagle in testa, andando a vincere con oltre 1 minuto di vantaggio. Non era solo una vittoria, era il sogno concretizzato, la visione arrembante, folle, un po’ guasconesca nel suo nome così rutilante, che si avverava.
Dan Gurney vince con la sua Eagle, ad un anno dal debutto, con un budget non all’altezza e una squadra piccola rispetto ai team più grandi ed articolati. Nello stasso anno rischiò di fare anche il bis al GP di Germania, quando a tre giri dalla fine e con un enorme vantaggio sul secondo, si vede costretto a parcheggiare ai lati della pista la sua Eagle per rottura della trasmissione.
Ma l’eccezionale poliedricità di Dan continuava. Negli States, con la sua Eagle Ford vince a Mosport a Sears Point a Riverside. Nella categoria Can-Am sviluppa la sua McLaren modificandola così pesantemente da venire soprannominata McLeagle. Sempre con il suo team AAR sviluppa la Playmouth Barracuda per la categoria Trans-AM. Nella Nascar Dan Gurney vince, all’inizio del 1968 e per la quinta volta,la Riverside 500.
Nelle categorie da corsa più importanti e nei due Continenti, Dan Gurney è sempre un pilota tra i primi. La sua versatilità, la velocità naturale, la capacità di saper anche gestire un team riuscendo a non farsi distrarre dagli impegni agonistici, ha qualcosa di magico. Ma il titanico impegno non regalerà sempre le soddisfazioni di vittorie e gare elettrizzanti.
Il ritiro della Eagle F1 ed il suo addio alle corse
Il momento no, dopo una cavalcata difficile, ma altrettanto piena di soddisfazione, doveva pur accadere. Si presenta alla fine del 1968 con una decisione che non avrebbe mai voluto affrontare: ritirare il proprio team dalla Formula 1. Il programma Eagle si sarebbe chiuso lì. Il motivo era nel ritiro del sostegno del suo sponsor principale: la Goodyear.
Ma se la Formula 1 si fermava, il programma Indy proseguiva con vigore. Nell’edizione 1968 il trionfo Eagle con una doppietta. Vince Bobby Unser con una Eagle equipaggiata con il motore turbo ed al secondo posto Gurney con lo stock block. Seconda posizione anche nel 1969 mentre nell’edizione del 1970, pur partendo favorito, conquista il gradino più basso del podio.
Nello stesso anno, il 2 giugno del 1970 a Goodwood Bruce McLaren si ammazza provando la sua nuova McLaren M8D, Dan Gurney collabora brevemente con Denny Hulme alla McLaren F1 e anche in Can-Am vincendo a Mosport e St. Jovite. Alla fine dell’anno il ritiro.
La motivazione a correre è una linfa vitale che scorre sottopelle. E’ destinata ad esaurirsi perché viene costantemente alimentata dalla motivazione a vincere, a competere. E’ un carburante fortissimo la motivazione. Viene meno quella, viene meno la voglia di rischiare, di misurarsi. Valeva quarant’anni fa, vale adesso, varrà sempre.
Dan Gurney ha avuto sempre una certa attenzione verso i temi della sicurezza. E’ stato il primo pilota a presentarsi in circuito con un casco integrale. Vestiva BELL e la BELL l’aveva sviluppato per i piloti di moto speedway che li utilizzavano per ripararsi dalle zolle di terra che arrivavano in faccia come fucilate, alzate dalla ruote posteriori delle moto. Nello stesso momento era perfettamente consapevole del rischio insito nel suo lavoro. C’erano pista migliorabili dal punto di vista della sicurezza, si iniziava anche a protestare apertamente per chiedere maggiori garanzie al riguardo, ma Gurney non si unì mai a queste rimostranze. Correre voleva dire anche affrontare quei pericoli. Adorava il Nürburgring, Spa, la corsa su strada per eccellenza rappresentata dalla Targa Florio, Rouen. Era a Reims quando si uccise Luigi Musso oppure quando Peter Collins morì al Ring. “Alcuni piloti pensano: non può succedere a me, ma sono perfettamente consapevole che, invece, questa cosa può travolgere anche me”.
La crescita della AAR
Il ritiro di Dan non voleva dire il ritiro dal suo mondo. Quello continuava a rimanere tale per lui. Le corse, i suoi uomini, le sfide, tutto si spostava di piano. Da pilota a costruttore. Adesso la sua energia sarebbe stata finalizzata nella crescita tecnica, tecnologica e di mercato della sua creatura. La All American Racers avrebbe dato lustro al motorsport americano. Così fu, così è e così continuerà ad essere.
Le Eagles continuarono a vincere: corse e campionati. Tra questi Indy nel 1973 e 1975. Poi la costruzioni di monoposto come la Formula A e la Formula 5000 o le Eagle di Formula Ford. Poi ben 18 generazioni di Indy Cars fino al 1986. Poi le Champ Car e le IMSA grazie al lungo rapporto di collaborazione con Toyota. Al riguardo il prototipo GTP Eagle MkIII Toyota del biennio 1991/1993 è stata la Eagle più vittoriosa di sempre con ben 17 gare consecutive, poi le Can-Am derivate dalle Mc Laren e affettuosamente battezzate McLeagles, la Delta Wing nella sua prima edizione.
Nel 2002 venne presentata la moto Alligator frutto, questa, della passione di Gurney per le due ruote. La sua altezza e le gambe lunghe gli diedero l’idea di una moto ispirata proprio dalle taglie alte: pilota seduto in basso, tra motore e ruota posteriore.
La AAR inizia a seguire, progettare e costruire non solo le auto, ma aerei , biciclette, handbike in quella poliedricità che rappresentava una delle caratteristiche più evidenti del suo fondatore Dan Gurney.
Daniel Sexton Gurney, detto Dan. Nato a Port Jefferson il 13 aprile 1931, morto a Newport Beach il 14 gennaio 2018. Uno dei piloti più grandi, ma soprattutto più amabili e simpatici della storia mondiale del motorsport.