La tecnologia non si ferma, il processo di evoluzione è un divenire costante. È l’affascinante assioma che riguarda tutti i processi di cambiamento. L’Europa però vuole cedere la sua sovranità tecnologica per sposare una mono tecnologia. A quale costo?
Questa transizione ecologica è oramai diventata una transizione ideologica. I nodi di una rivoluzione tecnologica, industriale, organizzativa, economica si concretizzano in una lotta tra schieramenti politici, in una visione ideologizzata e in uno scontro furioso tra lobby spesso male organizzate.
Non è così che dovrebbe andare e non è così che daremo una risposta adeguata, fattibile, concreta e coerente alle esigenze fondanti della nostra umanità: vivere in un mondo ecologicamente più sano e pulito, socialmente ed economicamente più etico e accogliente.
Abbiamo deciso di cedere sovranità tecnologica
Il segnale che è stato dato dalla decisione del Parlamento Europeo è un errore strategico pericolosissimo. In un articolo molto interessante sul Sole24Ore, Paolo Bricco parla di cessione di sovranità tecnologica dal momento in cui questa scelta è:
… destinata a segnare il futuro dell’industria europea in termini di riduzione di centralità dell’Europa nella nuova globalizzazione, di perdita di competitività nella manifattura continentale, di auto-attivazione, nel proprio corpo sociale, di un ordigno di crisi occupazionale pronto ad esplodere e – nei nuovi equilibri della industria e del commercio internazionale – di sottomissione alla Cina.
Il punto è proprio questo: il cambio di paradigma repentino e imposto, rischia di smantellare il know how e la competitività industriale e tecnologica del Vecchio Continente a vantaggio delle economie asiatiche, che non solo hanno le materie prime essenziali che a noi mancano, ma hanno politiche economiche e industriali dove lo Stato entra con miliardi a strafottere che a confronto i bilanci comunitari e nazionali dedicati rappresentano striminzite e asfittiche risposte.
In un mondo interconnesso, economicamente e socialmente, l’Europa è il Continente meno attrezzato per gestire decisioni strutturali di grande portata, come questa, in totale autonomia. Non ci mancherebbero conoscenza, tecnologia e capacità manageriali, ma ci mancano le materie prime e i volumi produttivi per sopperire alle fluttuazioni di un mercato spesso schizofrenico e regolato sempre di più da dinamiche geopolitiche ancora più complesse e ingestibili.
La modernità e una spada utile a combattere, ma che per utilizzarla bene bisogna prenderla per il manico e non per la lama
È la metafora di chiusura del discorso di Paolo Scudieri, Presidente ANFIA, durante il convegno organizzato lo scorso 31 maggio a Firenze e in cui ha più volte ribadito come lo sviluppo della mobilità elettrica è un pilastro fondamentale non solo per le industrie automobilistiche, ma anche per tutti gli operatori di filiera. Una sfida necessaria da affrontare, però, con un approccio più razionale ed olistico:
questa volta il legislatore europeo vuole dismettere completamente tutti i prodotti della sua filiera per abbracciare una sola tecnologia ad oggi di totale dominio asiatico (…) verranno messi a rischio migliaia di posti di lavoro (in Italia ne abbiamo stimati circa 73.000 nei prossimi anni tra quelli che lavorano solo nella produzione di componenti per veicoli a combustione interna e che non saranno compensati dalle circa 6.000 nuove posizioni che creerà la mobilità elettrica
Un approccio più neutrale, sempre secondo l’esperienza di Paolo Scudieri, metterebbe in sinergia con l’elettrico tecnologie che possono contribuire significativamente alla decarbonizzazione del settore come i biocombustibili, i carburanti sintetici, l’idrogeno (come vettore per il motore endotermico che per le fuel cell).
La sfida delle grandi gigafactory non risolve il problema
La grande sfida delle gigafactory europee, tra cui gli interessanti progetti italiani con l’ultimo quello annunciato da Italvolt a Scarmagano nell’ex area Olivetti, non centrano il vero problema della questione.
Per Paolo Scudieri la questione della produzione delle batterie deve partire a monte di queste future megastrutture:
occorre far cresce una catena del valore delle batterie in Italia a monte delle gigafactory. Perché le gigafactory sono investimenti importanti, ma sono stabilimenti automatizzati dove sostanzialmente vengono assemblate celle il cui know how risiede soprattutto in Asia. Dobbiamo far crescere in Italia la capacità di raffinare i metalli, rafforzare le competenze sulla chimica delle celle, avviare la produzione di catodi per avere realmente un valore aggiunto nella catena rispetto al semplice, seppur importante, assemblaggio delle celle…
Evviva è salva la “Motor Valley”. Sicuro?
In effetti, con il senno di poi, ritorniamo un attimo da quel dato del tetto massimo di produzione a 10.000 vetture per le nostre GT costruite in terra d’Emilia. A parte la deroga che non è definitiva, ma varrà solo una manciata di anni, la questione non è neanche positiva perché si toglierà a Ferrari e Lamborghini la possibilità di scalare la produzione verso un modello Porsche che, poteva invece far parte della strategia del management.
Recuperare la proposta: dal 100% al 90%
Per molti questa prima decisione rappresenta un vero e proprio suicidio comunitario, ma quale potrebbe essere la speranza? Quella di poter ridiscutere, nel passaggio al Consiglio Europeo, la proposta di portare l’obiettivo di riduzione della CO2 dal 100% al 90% al 2035.
Possibile che un 10% potrebbe salvare la situazione dal punto di vista industriale e continuare ad alimentare, in maniera più organica ed equilibrata il passaggio all’elettrico? Molto probabilmente sì. La risposta si chiama neutralità tecnologica
Un 10% che cambia profondamente lo scenario
La decisione di cancellare il motore termico nel 2035 di fatto significa cancellare quella neutralità tecnologica chiesta da un numero sempre maggiore di politici, non solo italiani. L’impossibilità di poter effettuare ricerca e sviluppo su tematiche che già hanno scientificamente dimostrato di poter contribuire alla decarbonizzazione, colpisce maggiormente le economie più sviluppate del settore: Italia, Germania e Francia che svettano nei powertrain benzina e diesel. Un settore che così si troverebbe senza le necessarie risorse per fare ricerca e sviluppare sistemi di trazione basati su carburanti non fossili e biocarburanti e senza considerare l’evoluzione dei sistemi di filtraggio che promettono performance ancora più elevate (Bosch in primis sul diesel)
Questa mancata convenienza a investire in tale direzione, vista l’assenza di quella preziosa neutralità tecnologica voluta per legge, non farebbe altro che velocizzare l’invecchiamento dell’attuale offerta endotermica, comportando una ulteriore contrazione del mercato automotive europeo e un conseguente azzeramento, con anni di anticipo sulla scadenza, degli investimenti dei Costruttori e della filiera. Un corto circuito drammatico di cause e concause che si autoalimenta decretando nel medio termine l’arresa ai produttori asiatici.
Ecco quindi che l’idea di richiedere con forza un 10% di taglio emissioni consentirebbe di tenere in vita una filiera in grado di generare le necessarie risorse per fare innovazione e contribuire a ridurre ulteriormente le emissioni in un’ottica più integrata e olistica, potendo ridurre anche l’impatto negativo sul fronte occupazionale e permettere all’Europa di salvare quel vantaggio tecnologico che diventerà, nello scacchiere competitivo di domani, la condizione essenziale per non consegnarsi interamente alle fluttuazioni di un mercato delle risorse sempre più schizofrenico.
L’alternativa è prepararsi a cedere la sovranità del settore alla Cina che controlla, già adesso, tutte le catene del valore sia in terra asiatica che africana proprio lì dove ci sono tutte le materie prime e le terre rare così fondamentali per fabbricare le auto elettriche.