Un po’ di capelli grigi sulle tempie e qualche ruga in più intorno a quei suoi occhi marroni intensi ed espressivi, ma a quasi 56 anni Carlos Sainz è ancora, indiscutibilmente, “The King” o il “Matador” perché quell’intransigente desiderio di dare la caccia ad ogni pilota rivale è intatto, granitico. La seconda vittoria alla Dakar, con la spettacolare Peugeot 3008 DKR, è la prova che quest’uomo non è solo un pilota, ma una leggenda vivente costruita grazie ad una personalità irresistibile.

“Today I am probably the proudest son of his father in the whole world”. In questo breve tweet denso di significato di Carlos Sainz Jr. che si riassume la storia umana di questo grande pilota che vince per la seconda volta il rally raid più duro del mondo. La ricetta, per lui, è semplice e difficilissima nello stesso tempo. Massimo Calandri su Repubblica.it la riporta:
[blockquote text=”Non bisogna commettere errori. Poche cose, semplici. Il senso della misura, la tranquillità. Meglio essere tartaruga, ma non perdere mai troppo terreno. I conti li faremo alla fine” signature=”Carlos Sainz “]Sembra una dichiarazione di ovvia prudenza, ma è il risultato della grande esperienza di Sainz che di Dakar ne ha collezionate undici vincendone, appunto, due. Perché Carlos lo sa che entrare in quella gara vuol dire innanzitutto imparare ad abitarla, prima ancora che correrla, apprendendo da quegli spazi infiniti, da quelle condizioni ambientali così mutevoli, diverse ed estreme, i suoni, le vie, il mistero.
Carlos Sainz appartiene a quella ristretta cerchia di piloti che riescono ad essere un nome ancor prima di un atleta. Certo, atleta a tutto tondo perché prima delle corse c’era lo squash che ha giocato, da professionista, ma là fuori, ci sono piloti che magari hanno un talento ancora maggiore ed hanno vinto più Campionati, ma non vantano la stessa notorietà dello spagnolo di Madrid. Perché? Perché Sainz ha una personalità irresistibile. E’ il tipo di persona intorno alla quale i miti crescono senza sforzo e non importa se alcuni di questi possono essere veri oppure no: è sufficiente sapere che potrebbero esserlo.
Qualche storia? Si dice che sia stato un caro amico del defunto Re di Spagna Juan Carlos, mai confermato per la sua discrezione. Alla fine degli anni ’90 girò con la Toyota GT-One Le Mans in una sessione di test andando più veloce dei piloti titolari, ma nessuno ricorda i tempi di quella giornata. Cioè, non ci sono prove a queste affermazioni, ma il punto è che sei pronto a crederlo perché è lo spessore della sua personalità che può sostenere la notizia.
Poi c’è il figlio in Formula 1. Altra caratteristica ad alimentare il mito: quella di essere genitore famoso di un figlio famoso. A guardarlo in pista, grazie alle fugaci riprese delle telecamere, si intravede un atteggiamento discreto, appartato. Carlos Sr. non crede neanche per un minuto che i successi del figlio in Formula 1 abbiano qualcosa a che fare con lui se non quello dell’esempio: l’etica lavorativa senza limiti necessaria per rendersi attraente alle persone che ti serviranno per raggiungere la cima. In quelle poche interviste al riguardo mi colpivano le sue parole: “dipende solo da lui (il figlio). Deve lavorare duro e concentrato sul suo obiettivo. Solo così sarà possibile realizzarlo” . Ecco un’altra caratteristica che lo fanno mito: l’equilibrio di un padre che vuole tenersi anni luce distante dalla carriera del figlio, ma senza fargli mancare quello che a lui è mancato: il sostegno anche psicologico dei genitori.

Dakar 2018. Anatomia di una impresa
Una gara geniale e difficile, niente da dire. Da sempre la Dakar riassume i picchi più epici della grandi gare di una volta quando i piloti, veri cavalieri del rischio, mettevano sul piatto il proprio coraggio (e la propria vita) per stabilire una graduatoria tra i migliori.
8.793 km di strade incredibili, tra dune, strade di montagna, piste rocciose, correndo e attraversando Paesi scorrendo gli estremi climatici, caldo torrido e gelo polare: Perù, Argentina, Bolivia. Alla fine, il traguardo della 40esima edizione della Dakar ha visto passare solo il 57% dei partecipanti, e, davanti a tutti, l’equipaggio Carlos Sainz e Lucas Cruz con la Peugeot 3008 DKR.
In una gara dove hanno fatto naufragio in molti, quando leggi il resoconto delle tappe giornaliere fai fatica ad individuare un equilibrio tra finzione e realtà. Un rally raid che quando parte ti proietta contemporaneamente in una cronaca di gara e in un racconto avventuroso fatto di sfide umane e tecniche ai limiti. Dakar richiede questo: un’angolatura inesistente, se non dentro il tuo punto di vista, da cui seguire le due settimane di gara, leggerne i resoconti. Se riesci ad estraniarti dal puro fatto agonistico riesci a denudare la storia in un racconto irripetibile.
La Dakar da sempre si vince con l’affidabilità e la strategia. Due componenti che non sono mancate allo squadrone Peugeot che ha vinto ben 7 delle 13 speciali della corsa e che ha subito solo qualche piccolo problema con il cambio (selezione delle marce). L’unico ritiro di una 3008 DKR, quella di Loeb-Elena è stato di natura … fisica. Dall’involontario insaccamento della sua vettura tra due dune, che ha fatto perdere al forte alsaziano 2 ore e 45 minuti, il suo navigatore ha riportato un’infortunio al coccige che gli ha reso impossibile la continuazione della gara.
Dopo 3 edizioni in cui sono sempre stati costretti al ritiro, la quarantesima edizione della gara ha rappresentato per l’equipaggio Sainz-Cruz il piacere luminoso della vittoria costruita con la gestione accorta della corsa. Nello srotolarsi quotidiano delle singole tappe, Carlos Sainz ha staccato, come un professore del volante, delle microlezioni per tutti gli altri. Quel senso della misura e tranquillità, da lui evocato come ingrediente per impostare la gara è diventato il segreto di una corsa solida e veloce. Vincitori delle tappe 6 e e 7, hanno preso il comando generale di classifica durante la tappa maratone e da quel momento hanno solo gestito la loro leadership

Il gesto nobile dei compagni di squadra
In questa bellissima gara, oltre alla vittoria, forse più della la vittoria stessa, merita una standing ovation il comportamento dell’equipaggio Cyril Despres e David
Castera della Peugeot 3008 DKR numero 308.
Mentre a Córdoba l’equipaggio Sainz-Cruz taglia il traguardo con 43 minuto e 40 secondi di vantaggio sul secondo, la Toyota Gazoo Racing dell’equipaggio Nasser Al-Attiyah-Matthieu Baumel, la 3008 DKR dell’equipaggio Stéphane Peterhansel e JeanPaul Cottret già vincitori dell’edizioni 2016 e 2017, arriva quarta a causa di due incidenti che li hanno costretti a ritardi incolmabili: nella tappa 7 una deviazione per un quad fermo sul tracciato previsto nascondeva un tranello: una pietra nascosta ha distrutto la sospensione posteriore. All’inizio della tappa 13 un albero ha fermato la corsa strappando una bielletta di sterzo.
In queste disavventure c’è un gesto che sottolinea la cultura sportiva di questa squadra e lo spirito che la alimenta. Il fatto è che, in ambedue gli incidenti, chi è venuto loro in soccorso è stato l’equipaggio della Peugeot numero 308 che si seguivano. Al traguardo finale saranno 31.esimi con oltre 45 ore di ritardo. La causa, anche qui, una pietra sporgente urtata durante la tappa 4 che li ha fatti arretrare definitamente quando viaggiavano tra le prime posizioni. Da qui la scelta di mettersi a disposizione dei compagni di squadra a riprova dello spirito vincente di questa squadra.