Lo dico subito. Non sono stato preciso, non è proprio la Cobra 427 SC, ma è la migliore replica riconosciuta dagli esperti: la Kirkham 427 KMS/SC. E, lo assicuro, va bene lo stesso.
Ci sono auto che sono maledettamente semplici, che vengono da lontano, risalgono il tempo e sfidano la modernità con sfacciata superiorità. Ché, alle volte, è proprio dalle cose più semplici che si estrae la migliore poesia.
Quando si parla di Cobra 427 SC, ci si trova di fronte ad un appassionante romanzo di motorsport che si lega indirettamente ad una causa di principio, un grande rifiuto e ad una voglia di riscatto.
Tutto inizia da qui
Il 18 giugno 1969 la Ferrari entra in Fiat, una scelta necessaria per affrontare un mercato sempre più tecnologicamente ed economicamente complesso. Il fatto è che fino a quel momento l’accordo si stava perfezionando con gli americani di Ford che avrebbe previsto la divisione GT gestita da loro mentre il reparto competizioni rimaneva in capo al Commendatore. Cinquanta e cinquanta e una valanga di soldi in arrivo per lo sviluppo. Ecco, appunto. Una valanga di soldi che avrebbe dovuto mettere anche Enzo Ferrari, soldi che non possedeva. Il rischio di diventare insignificante a casa sua era insopportabile. L’accordo con Fiat è stato un lampo. Furiosi gli americani.
Dare una lezione a questo modenese
Bisognava dare una lezione a questo modenese, batterlo sul campo. E’ a questo punto, tra gli altri, che entra in scena Carroll Shelby, papà della Cobra. La Ford, già da qualche stagione, stava combattendo con la sua GT40 nata per contrastare lo strapotere di Maranello nelle gare di durata. Aveva già investito tanti soldi, ma senza gli uomini giusti ai posti giusti. Difficoltà tecniche e progettuali ne rallentano lo sviluppo con una prima versione difficile da guidare e inaffidabile. E’ direttamente Lee Jacocca a chiedere a Shelby un impegno più articolato. In cambio la fornitura dei motori più evoluti anche per le vetture che Shelby stava realizzando: la Cobra.
Shelby aveva già costruito la 289, con telaio inglese della AC, leggero e semplice e il 4.2 litri della Ford Mustang. Per motivare Shelby sul progetto GT40, l’asso nella manica è rappresentato dal motore 427 (7 litri) che avrebbe equipaggiato la seconda serie della GT40, la MKII, quella che sbancherà Le Mans del ’66 con una magnifica tripletta.
Un motore modernissimo per la tecnica americana dell’epoca: teste in alluminio, sistema di lubrificazione “side oiler” che garantiva più efficienza e, soprattutto, compattezza. Offerta imperdibile per Shelby. Costruisce 100 Cobra 427, numero minimo per il regolamento FIA e SCCA (la Federazione americana) per poter omologare la vettura.
Alla fine del ’64 la doccia fredda: la Ford non è in grado di fornirgli tutte e 100 le unità, solo 51. La metà. Shelby, indebitato fino al collo, è di fatto fallito.
La soluzione si presenta come un flash: convertire auto da corsa in stradali. Un sedile in più, un batteria più grossa e via andare. Una vettura costruita per vincere la 24 Ore di Le Mans nel traffico di tutti i giorni. Costava un’ira di dio ma andò a ruba.
Alla sigla 427 ci aggiunge SC. “Semi Competition” o “Street Competition”, le interpretazioni non sono univoche, ma la sostanza non cambia; due lettere che trasformeranno una intuizione in una leggenda. Delle 51 SC, 17 verranno riconvertite in Full Competition, le 36 rimanenti oggi valgono oltre il milione di euro l’una.
Nella seconda metà degli anni ’90 la decisione di riproporre una replica fedele di questa icona. Shelby decide di realizzare una Continuation Series adottando, per la cura e la fedeltà all’originale, proprio il telaio e le carrozzerie dei fratelli Kirkham. Bella storia.
Dallo Utah a Varsavia
La Kirkham ha una carrozzeria in alluminio che a vederla da ferma è uno spettacolo di per sé che si porta dietro un aneddoto. Nasce nel 1994 proprio per costruire le più belle, perfette repliche della Cobra. Nel pieno di un restauro di una Cobra CSX3104, si imbattono in un caccia polacco della Seconda Guerra Mondiale importato da un loro parente. Rimasero sbalorditi dall’accuratezza del ripristino che presentava affinità notevoli con il lavoro in cui erano impegnati. La decisione è di quelle semplici nella loro logica, ma assolutamente non convenzionali nella fattibilità: andare a conoscere di persona questi fantastici battilastra per vedere se fosse stato possibile creare un ponte tra Varsavia e lo Utah. Detto, fatto.
Tutte le carrozzeria delle Kirkham, dal 1994 oltre ottocento tra 427s e 289s, sono realizzate da questi artigiani che da tre generazioni si tramandano l’arte unica di creare linee immortali partendo dal materiale grezzo.
Una vettura semplicissima
La vettura è semplicissima: vive su un telaio “big tube” con due grossi binari di grande diametro, le sospensioni sono a quadrilatero e il cambio, montato davanti, incide anche sulla caratteristica posizione di guida dove sterzo e pedaliera sono leggermente spostati sulla sinistra rispetto al tuo asse. Il motore, malgrado sia un aste e bilancieri, strutturalmente più compatto di un camme in testa, è molto pesante. Per cercare di centrare il più possibile le masse, l’hanno montato molto arretrato. Praticamente la leva del cambio è direttamente collegata alla scatola, senza rinvii, ma per poterla utilizzare te l’hanno piegata in avanti. Le 4 marce (4+ over drive in questa versione) sono inseribili secondo il classico schema ad H, con un movimento leggermente inclinato che basta poco ad abituarcisi.
Ecco il fascino della Cobra (o di questa Kirkham che è la stessa cosa): la sua raffinata semplicità. Se la vai a smontare sono tubi di metallo, grossi e rigidi, saldati con le traverse e con dentro un motorone. Un cancello degli anni ’60 il cui confronto con altre icone dello stesso periodo è impietoso: la Ford GT40, monoscocca in alluminio saldato e scatolato, l’Alfa Romeo 33-3, una fusione monolitica di magnesio che non c’è ne idea del suo costo. Qui sembra tutto più “casareccio”, ma studiato nel dettaglio. Anche qui c’è il suo enorme fascino.
Su strada a guanti bianchi
All’inizio c’è l’accensione. Quella cerimonia che appartiene al tempo degli automatismi a zero. Inneschi la pompa della benzina tramite l’interruttore sul cruscotto, ronzio costante, giro di chiave, due o tre giri del volano, il tempo di riempire ben bene il mastodontico quadri corpo Holley e poi l’urlo lacerante, le fiammate dagli scarichi e il 427 che si sveglia pronto a portarti in un mondo altro. Ecco, quando ronfa sornione al minimo, lì ti rendi conto che stai per infilarti in un’arma impropria.
I guanti bianchi sono quelli necessari per guidarla. La grande corona del volante in legno ti riporta informazioni filtrate, le gomme da quindici pollici hanno spalle che praticamente concorrono ad ammortizzare e che, in velocità, ti danno comunque il tempo di sentire come si muove l’oggetto. Guai altrimenti. Perché la Cobra, se decidi di spingere, quasi terrorizza su strada.
Il fatto è che il 427, otto cilindri, è un motore da corsa vero e proprio. La Ford GT40 MKII ci ha vinto la 24 Ore di Le Mans del 1966, ancora oggi, il basamento viene prodotto dalla Ford SVO (Special Vehicle Operation) perché viene largamente utilizzato nelle competizioni della NHRA (Dragster) dove i motori raggiungono anche potente di 5000 cavalli. E questo straordinario V8 ha una coppia così violenta, circa 70 kgm pronti da subito che, su strada, ti conviene sfruttarla al 50%. Che già godi come un pazzo.
I cavalli poi, di questo esemplare, sono saliti di altri 60: da 425 a 485 e questo grazie solo ad affinamenti vari ché con un cubatura come questa ci vuole poco a tirarne fuori a mazzi. Appena spingi deciso sull’acceleratore il motore esplode in un boato con una determinazione incontenibile, furiosa, in un continuo crescendo. Il cambio, con quella strana leva che ti consente di manovrarlo, è più veloce di quello che pensi, ci vuole poco per capire come inserire le marce in rapida successione, il problema è che non abbiamo un rettilineo sufficientemente lungo per provare il sottile passaggio dal divertimento, il piacere e … il terrore.
La Cobra è così violenta, brutale, nella sua progressione, che non puoi fare a meno di pensare che, con questa macchina, ci hanno corso e vinto. E se il motore è semplicemente folle e con un sound da heavy metal, il resto del pacchetto è lontano anni luce dal comportamento di una Gt moderna: lo sterzo è poco preciso, pesante e piuttosto lento nelle reazioni. Guidarla forte con quelle grosse gomme da 270 davanti e 315 dietro su cerchio da 15”, richiede una guida fisica, dovete darci dentro con i muscoli per buttarla in curva. Paradossalmente proprio grazie all’enorme spalla del pneumatico e l’enorme impronta a terra, la Cobra ha un grip negli inserimenti elevatissimo, “si sente” nei suoi movimenti, è brutale, ma avverte e non ci vuole molto per capire che, malgrado tutto, potrebbe essere in grado di mantenere un ritmo sorprendente. Anche i freni sono potenti, ben calibrati, ma a patto di non sollecitarli troppo. Sono da 220 mm, leggermente ventilati e con una pinza fedele all’originale. Anche in questo caso l’utilizzo deve essere calibrato, le frenate mai violente, pena l’allungamento preoccupante degli spazi di frenata. E con queste prestazioni l’idea non è molto igienica.
Parliamoci chiaro, non ho avuto il tempo e il modo di provare a fondo questo splendido oggetto, sicuramente ci ritornerò su, ma quello che conta è vivere quella straordinaria sensazione che hanno vissuto i piloti dell’epoca intensa e romantica del motorsport. Rendersi conto sulla propria pelle quanto guidare fosse fisico, intenso e quanto il coraggio puro, da cuore oltre l’ostacolo, spesso riusciva a compensare la capacità tecnica del gesto.